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PORTATORI DI HCV CON TRANSAMINASI NORMALI: QUANDO “NORMALE” NON VUOL DIRE NECESSARIAMENTE “SANO”
Articolo di CLAUDIO PUOTI
Direttore Struttura Complessa di Medicina Interna, Ospedale di Marino (Roma), ASL RM/H

PREMESSA

L’identificazione alla fine del 1989 del virus della epatite C (HCV) fu seguita dalla ampia diffusione di un test semplice e non eccessivamente costoso per la determinazione dei relativi anticorpi (anti-HCV), il che consentì di definire sempre meglio la storia naturale della infezione da HCV. Questa è seguita da guarigione spontanea solo in una esigua percentuale di casi (meno del 20-30%); nella maggior parte dei casi si assiste alla cronicizzazione dell’infezione, che nel 15% circa dei pazienti evolve più o meno lentamente verso la cirrosi epatica e le sue complicanze (epatocarcinoma, iperten­sione portale, ascite, ecc.).

Con il progressivo migliorare delle conoscenze fu com­preso che solo in una minoranza di casi la presenza di anticorpi anti-HCV è indicativa di immunizzazione e di avvenuta guarigione, in quanto la presenza di anticorpi coesiste con la presenza del virus, identificabile tra­mite la rilevazione del genoma virale circolante (HCV RNA sierico). È stato inoltre chiarito che molti soggetti anti-HCV positivi hanno normali livelli di alanina tran­saminasi (ALT), e che la maggioranza di essi (70-80%) presenta stabile HCV RNA positività. Pertanto queste persone sono viremiche e potenzialmente contagiose, nonostante la normalità della biochimica epatica. Si calcola che i portatori di HCV con ALT normali rappresentino il 30-40% circa di tutti i pazienti HCV positivi. In Italia la prevalenza è del 2-3% circa, con percentuali minori al Nord (0,7-1,5%), intermedie al Centro (2-3%), e progressivamente più elevate al Sud (dal 5 al 12%). I dati epidemiologici dimostrano inoltre un effetto coorte, con netto incremento della prevalenza degli anticorpi nei soggetti più anziani.

Inizialmente i portatori di HCV con transaminasi normali vennero considerati come portatori “sani” del virus; per­tanto la “percezione” di questi pazienti come soggetti affetti da danno epatico insignificante ha determinato una sottovalutazione delle reali dimensioni del proble­ma, portando a considerare come inutile e forse danno­sa la terapia antivirale 4 5. Solo in un secondo momento fu chiaro che non sempre si tratta di persone “sane” o affette da malattia epatica minima. Studi più recenti hanno dimostrato che solo una minoranza di questi sog­getti mostra una istologia normale alla biopsia epatica (veri “portatori sani” del virus); nella maggior parte dei casi infatti è presente un danno epatico in genere mode­sto, che però in diversi casi può essere anche di entità più severa, e potenzialmente evolutivo.

COSA SIGNIFICA “NORMALITÀ” DELLE TRANSAMINASI?

I limiti superiori di normalità ai quali facciamo oggi rife­rimento (in media, 40 U/L) sono stati introdotti alla fine degli anni ’50 e meglio definiti negli anni ’80, quando lo screening delle ALT è stato introdotto in Medicina Trasfusionale come marcatore surrogato dell’epatite non A, non B tra i donatori di sangue. A quei tempi, il test anti-HCV non esisteva ed i criteri comportamentali per la selezione dei donatori di sangue non erano ancora in uso. È dunque probabile che i gruppi di controllo allora ritenuti “sani” includessero in realtà diversi individui con malattia epatica subclinica, per lo più riferibile alla steatosi. È stato pertanto proposto che gli attuali limi­ti superiori di normalità siano troppo elevati, e che le soglie ideali per l’identificazione di danno epatico debbano essere abbassate a 19 U/L per le donne e 30 U/L negli uomini.

COSA SIGNIFICA “PERSISTENTE” NORMALITÀ DELLE TRANSAMINASI?

Non sempre un soggetto anti-HCV positivo con tran­saminasi normali in determinazioni sporadiche (2-3 controlli, magari a tempi ravvicinati) può essere considerato come un portatore con livelli enzimatici persistentemente nella norma. Infatti nel corso della infezione da HCV non è raro osservare notevoli fluttua­zioni delle transaminasi, che possono rimanere normali per molti mesi o anche anni, per poi incrementarsi improvvisamente in almeno il 20-30% dei pazienti, soprattutto se infettati con genotipo 2. Queste improvvise “fiammate” biochimiche, talora anche rilevanti (x 5-10 volte i valori normali), determinano un evidente peggioramento dell’istologia epatica ed accelerano nettamente la progressione della fibrosi. Non è stato a tutt’oggi identificato alcun criterio che ci permetta di predire quali soggetti sono maggiormente a rischio di improvviso deterioramento della malattia epatica, e pertanto non è possibile proporre degli schemi di follow-up personalizzati. Non è chiaro quanto questi picchi di ALT siano dovuti all’insorgenza di cofattori (steatosi, NASH, abuso di alcol, aumento ponderale, ecc.) e quanto alla storia naturale della malattia.

COME SEGUIRE NEL TEMPO I PORTATORI DI HCV CON TRANSAMINASI NORMALI?

Nell’ambito dei soggetti HCV RNA positivi con ALT norma­li vanno dunque distinti due diversi sottogruppi: soggetti con reale e persistente normalità enzimatica, e pazienti in transitoria remissione biochimica, che può in qualunque momento essere seguita da improvviso incremento delle ALT. È probabile che in quest’ultimo gruppo la storia natu­rale sia meno benigna di quella osservata nei pazienti con livelli persistentemente normali di ALT. Poiché valori normali di ALT in osservazioni isolate e puntiformi non consentono di escludere nel breve periodo la possibilità di improvvisi picchi enzimatici, è stato suggerito che il periodo ottimale di osservazione per la definizione di portatore di HCV con livelli normali di transaminasi non sia inferiore a 18 mesi e che la valutazione delle transaminasi sia effettuata ogni 3-4 mesi. Decorso tale periodo, sono sufficienti controlli semestrali. In considerazione della possibile evoluzione della malattia epatica nonostante le ALT persistentemente normali, è opportuna un’ecografia epatica, anche se a tempi non troppo ravvicinati (ogni 12-18 mesi).

Ovviamente la normalità delle ALT deve accompagnarsi all’assoluta normalità di tutti gli altri test bioumorali (GGT, fosfatasi alcalina, bilirubina, emocromo, ecc.) e della ecografia epatica, nonché alla assoluta normalità dell’esame obiettivo.

VANNO EFFETTUATI I TESTS VIROLOGICI NEI PAZIENTI CON TRANSAMINASI NORMALI?

È stato ripetutamente dimostrato che, nei pazienti con transaminasi persistentemente nella norma, la viremia quan­titativa e il genotipo dell’HCV non correlano con la pre­senza e la gravità del danno epatico né sono predittivi dell’evoluzione o non di malattia; pertanto la determinazione di routine di questi parametri virologici è del tutto ingiustificata e costituisce immotivato spreco di risorse, ad eccezione dei pazienti eventualmente candidati a trattamento antivirale.

Il primo test da effettuare nei soggetti anti-HCV con ALT persistentemente normali è la determinazione della viremia qualitativa, al fine di discriminare i veri portatori (soggetti viremici, HCV RNA positivi) dai soggetti HCV RNA negativi, non viremici e quindi potenzialmente guariti dall’infezione. Tuttavia, per cautela la negatività dell’HCV RNA andrebbe verificata ogni 12 mesi per 2-3 anni, al fine di escludere la possibilità di improv­visa positivizzazione della viremia. In caso di negatività dell’HCV RNA quantitativo può essere indicata l’effet­tuazione del test di conferma anticorpale RIBA, che permetterà di escludere eventuali false positività degli anticorpi anti-HCV.

ASPETTI ISTOLOGICI

La prevalenza di soggetti con fegato normale alla biop­sia (veri “portatori sani”) non supera il 20% dei porta­tori con ALT normali. Nella maggior parte dei casi esiste una qualche forma di danno epatico, sebbene in genere lieve: la fibrosi è infatti usualmente modesta o assente, e la istologia è significativamente meno severa rispetto ai pazienti con ALT elevate o fluttuanti. Studi più recenti sia cross-sezionali sia prospettici hanno dimostrato la presen­za di danno epatico più grave in almeno il 20% dei casi e di cirrosi epatica nel 3-5% dei pazienti. Di recente sono stati segnalati anche casi isolati di epatocarcinoma in soggetti con ALT normali, addirittura con fegato istologicamente normale. L’evoluzione della fibrosi è più accentuata nei maschi, nei pazienti più anziani, in presenza di cofattori (alcol, HBV, steatosi epatica, ecc.) o di fibrosi basale di grado avanzato (> F2).

TRATTAMENTO ANTIVIRALE

I portatori di HCV con livelli normali di ALT sono stati tradizionalmente esclusi dalla possibilità di trattamento antivirale, anche per il timore di improvvisi incre­menti dei valori enzimatici in corso di trattamento con interferone (IFN) in monoterapia.

Una prima evoluzione terapeutica si è avuta con l’uso della terapia combinata IFN-ribavirina, con la quale si sono ottenute delle percentuali di risposta virologica sostenuta non dissimili da quelle osservate in pazienti con transaminasi elevate. La svolta decisiva si è ottenuta con i risultati di uno studio multicentrico internazionale, finalizzato a valutare l’efficacia del trattamento con inter­ferone peghilato alfa-2a + ribavirina. Questo studio ha indicato che la risposta sostenuta complessiva è del 30% nei pazienti trattati per 24 settimane e del 52% in quelli trattati per 48 settimane. Nei pazienti con genotipo 1 si è ottenuta una risposta sostenuta nel 13% dei casi trattati per 24 settimane e nel 40% di quelli trattati per 48 settimane, mentre nei soggetti con genotipo 2 o 3 la risposta nei due gruppi è stata del 72% e del 78%, rispettivamente. Di recente, con determinazione AIFA dell’8 marzo 2006, pubblicata sulla G.U. n. 58 del 10 marzo 2006, la nota 32 relativa all’impiego dell’interferone nei pazienti con epatite cro­nica da HCV è stata modificata, per cui attualmente è consentito il trattamento con interferone peghilato alfa-2a + ribavirina nei portatori di HCV, indipendentemente dal livello di transaminasi. Rimane invece l’obbligo della presenza di ipertransaminasemia per l’uso dell’in­terferone peghilato alfa-2b.

CHI TRATTARE E COME

Alla luce delle nuove possibilità di trattamento, si pone a questo punto il problema di identificare correttamente i soggetti candidati al trattamento e di stabilire se e in quali casi proporre la biopsia epatica. I criteri per la decisione terapeutica dovrebbero prioritariamente basarsi sull’età del paziente, sulle motivazioni, sul genotipo virale, sull’aspettativa di vita, sulla presenza di co-fattori di malattia epatica e sulle possibili controin­dicazioni. È stato proposto che in pazienti giovani (età < 45-50 anni), con genotipo “favorevole”, bassa carica virale, forte motivazione e senza controindicazioni, si possa procedere al trattamento anche in assenza di biopsia epatica. In questi soggetti infatti la probabilità di risposta è talmente elevata e gli effetti collaterali tal­mente ridotti da permettere di ipotizzare il trattamento anche senza la preliminare conoscenza della istologia. La biopsia epatica potrebbe eventualmente essere effet­tuata a posteriori nei non responders al trattamento. Al contrario, nei pazienti in cui il rapporto costo/bene­ficio non è favorevole (età > 50 anni, controindicazioni relative, scarsa motivazione, genotipo 1, alta carica virale, presenza di cofattori, rischio di effetti collaterali, ecc.) l’opportunità del trattamento andrebbe valutata caso per caso in base alla gravità del reparto istologico, riservando la terapia ai soli pazienti con fibrosi di grado avanzato e monitorando strettamente i soggetti senza fibrosi o con fibrosi modesta. La durata del trattamento sarà ovviamente di 24 o di 48 settimane in funzione del genotipo HCV. Nei soggetti infine di età > 60-65 anni e/o con controindicazioni assolute e/o con lunga durata di malattia, appare ragionevole seguire una linea di osservazione clinica, evitando sia la biopsia epatica sia il trattamento.

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