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Sanità Lazio - Epatite C, nel Lazio è più dura

Parlano gli operatori di EpaC, associazione in trincea contro la malattia

Epatite C, nel Lazio è più dura

Nella regione il numero dei pazienti è salito al sei per cento della popolazione.

di Giusy Piazzolla

In Italia sono 2 milioni i malati di epatite C e nel Lazio, incrociando i vari studi epidemiologici, arrivano quasi al 6% della popolazione rispetto al 3,2 nazionale. Una patologia diffusa, perciò, ma spesso sottostimata.

L’associazione EpaC, da anni attiva nel campo dell’educazione, prevenzione e ricerca sulla patologia, ha recentemente aperto la sua sede operativa nella nostra regione, tenuto conto dell’alto numero di richieste che arrivavano ai call center dell’associazione soprattutto dalla capitale. Ma a Roma, nonostante la legge preveda che associazioni impegnate in attività sociali come l’EpaC usufruiscano di una sede pubblica, non è stato possibile ottenerla e così gli operatori hanno dovuto adattarsi in un piccolo appartamento messo a disposizione da un socio nel comune di Fiumicino. La loro attività resta tuttavia intensa e al telefono della postazione operativa risponde sempre qualcuno pronto a dare ogni informazione.

Abbiamo parlato con uno di loro, Massimiliano Conforti, il responsabile della sede laziale.

Dott. Conforti cos’è l’epatite C e come si contrae?

Si tratta di un virus caratterizzato da una notevole frequenza di mutazioni spontanee e quindi di natura genetica estremamente eterogenea. La via di trasmissione dell’HCV è di tipo parentale, cioè avviene attraverso il contagio con il sangue.

Quali sono le persone più a rischio?

Come abbiamo detto, essendo il sangue il veicolo della trasmissione, essa avviene soprattutto nei casi di trasfusione di sangue ed emoderivati, emodialisi, interventi chirurgici, tossicodipendenza, uso promiscuo di siringhe di vetro, di lamette, forbici e altri oggetti taglienti, ma anche, ed è un fenomeno più recente che colpisce soprattutto i giovani, attraverso i tatuaggi e i piercing, o infine con trasmissione verticale da madre a figlio durante la gravidanza.

Quale segmento della popolazione risulta maggiormente colpito?

La prevalenza dei casi riguarda oggi le generazioni intorno ai 40-50 anni che adolescenti e giovani durante gli anni ’70- ’80, quando la piaga della tossicodipendenza era più diffusa, oggi si trova a convivere con una malattia che soltanto nel 40% dei casi si risolve. Anche la mancanza di controllo sul sangue per le trasfusioni e sugli emoderivati che soltanto in un passato non troppo lontano è diventato di routine fa registrare oggi un numero altissimo, vicino alle 300mila unità, di persone infettate alla nascita. Perciò le categorie più a rischio sono i politrasfusi, gli emodializzati, i tossicodipendenti, gli operatori sanitari e di comunità.

Quali strumenti di prevenzione è necessario mettere in campo?

Ancora oggi infine manca una legge che obblighi estetisti, barbieri e quanti fanno comunque uso di strumenti taglienti a dotarsi dell’autoclave, l’unico apparecchio che garantisce una sterilizzazione assoluta. Scarsa è ancora l’informazione presso i giovani, più esposti al rischio e gli anziani che fanno uso di alcool magari ignorando di essere colpiti dal virus, che spesso si scopre occasionalmente perchè la malattia è quasi sempre asintomatica. Dal 1992 la legge prevede un indennizzo per le persone infettate da trasfusione, ma, per esempio, soltanto dal 2002 e solo grazie a una sentenza della Corte Costituzionale, anche gli operatori sanitari ne hanno diritto. Quindi gli screening tra la popolazione, l’informazione nelle scuole e norme a tutela della sicurezza sono strumenti fondamentali per evitare danni irreversibili al fegato.

Su questo fronte la situazione è purtroppo sconfortante. In un incontro con l’Istituto Superiore di Sanità dello scorso anno è emersa la decisione che l’intervento di informazione e prevenzione risulterebbe troppo costoso e perciò non sostenibile per il sistema. Così si preferisce aspettare che il virus devasti il fegato e il paziente si metta il lista per il trapianto. E tra le altre cose si dice anche che il test per verificare la presenza del virus non è neanche più richiesto per gli interventi chirurgici o in gravidanza, perchè nel primo caso gli operatori sanitari devono comunque usare tutti gli accorgimenti e nel secondo il rischio di trasmissione da madre a figlio è poco significativo.

Fonte: sanitalazio.it

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